Un'altra grande, forse la maggiore, mistificazione fu costruita sulla figura di Giuda. Il nostro uomo nasce in Palestina da una famiglia di ebrei farisei, la classe sociale addetta allo studio e alla diffusione dei libri della Torah. Sin da piccolo, abituato alle frequenti discussioni che avvenivano dentro casa fra i familiari e a quelle, più rare ma non meno intense, occorrenti nelle riunioni ufficiali dei notabili del Sinedrio, Giuda mostra dimestichezza con le sacre scritture, fino a diventarne un profondo analista. Le sue perequazioni sulle parole trasmesse da Yaweh diventano sempre più profonde, fino a farsi critiche sul modo in cui la società civile traduceva le esortazioni lì trasmesse, a ricordare di essere il popolo prescelto, destinato ad assumere – con l’arrivo del Messia – il controllo geo-politico della regione.
Il giovane Giuda si lascia sedurre, quindi, da uno dei movimenti più radicali apparsi all’epoca in quel lembo di Medio Oriente, quello degli “zeloti”. Questi ipotizzavano – e praticavano – la lotta armata contro l’invasore, convinti che questa fosse la volontà del loro Dio in preparazione dell’avvento del messaggero, che avrebbe finalmente riportato la terra d’Israele ai fasti perduti del passato, e soprattutto all’indipendenza dal giogo romano che a quell’epoca pesava su tutta la Palestina.
Quando Gesù comincia a ricercare tra la gente del popolo i Suoi discepoli, lui è uno dei primi a comparire: la sua retorica semplice ed efficace, la comprensione ed interpretazione delle scritture, lo spirito critico e l’entusiasmo con cui si dedicava alla studio delle “intenzioni” divine contenute nella Torah, oltre ad una naturale sviluppatissima intelligenza, lo fecero emergere nel gruppo dei pescatori, dedicati ma analfabeti, permettendogli di avere l’affidamento di un incarico importantissimo nel gruppo nascente, quello di tesoriere.
Aveva la fiducia del Maestro per la gestione della “cassa”, e quindi della logistica in generale: come spostarsi, che alimenti comprare, dove investire le rimanenze. Ma non solo. Era anche l’unico con cui “Rabi” discuteva le questioni celesti, il solo ad avere un bagaglio culturale sufficiente ad intendere le complesse dinamiche, o almeno parte di esse, che sottostavano alla missione del Maestro.
C’era però un equivoco di fondo insito nella mente di Giuda: da esimio studioso della Torah, e fedele seguace delle indicazioni profetiche, s’era convinto che la funzione del Messia, prima fra tutte, sarebbe stata quella della liberazione militare e politica della sua terra, invasa dal nemico romano.
Il regno dei cieli, secondo Giuda, era un potentissimo centro di controllo, fornito di uomini ed armi dagli effetti micidiali, una invincibile “task force” messa a disposizione da Yaweh per attuare i suoi propositi dominatori sul nostro pianeta.
Gesù, il Messia, era l’essere scelto dallo stesso Dio per attuare il suo piano di dominio.
Suonava strano quindi, agli occhi del nostro uomo, la personalità mite, pacifista, del Messia. I suoi messaggi di perdono e amore sembravano a Giuda solamente interlocutori, nell’attesa di sfoderare tutto il “potere di fuoco” di cui era stato dotato, e che avrebbe riportato Israele ai fasti dei tempi della casa di Davide.
Tutte le volte che aveva la possibilità, Giuda cercava di spronare il suo Maestro a rivelargli i suoi piani, soprattutto quelli concernenti la sfida militare secondo lui in gioco in Palestina. Sapeva che Questi deteneva il controllo di un esercito di “esseri di luce” proveniente da regioni a lui sconosciute, che avrebbe schiacciato il potere degli invasori, ribaltando la situazione allora attuale.
Il confronto con gli altri apostoli, e con il resto delle persone che frequentavano quotidianamente il Maestro – soprattutto con Sua madre Mariah - lo portava sempre allo stesso epilogo, condiviso dall’analisi di questi altri: il momento della “discesa in campo” del suo Rabi, lo sfoderio del potere celeste detenuto, l’annichilamento del nemico e l’apoteosi della vittoria. Il disegno divino di Yaweh si sarebbe presto attuato!
Grande fu quindi la sua delusione nel vedere che il Maestro indugiava, contro ogni aspettativa del popolo, ad indossare i panni del “conquistador”, assumendo il ruolo politico a cui Lui solo aveva accesso, guidando la rivolta ebrea.
Cercò di spronarlo in tutti i modi, a volte con fin troppa insistenza, ottenendo però sempre la stessa risposta: nella casa del Padre ci sono molte dimore, e il Suo regno non era di questo mondo.
Niente guerra di liberazione quindi, né organizzazione di milizie utili a fiancheggiare l’esercito celeste, né ruoli politici da svolgere in preparazione dei grandi eventi futuri.
All’interno del suo gruppo – gli zeloti – la pressione era grande. Le azioni di lotta armata proseguivano allo stesso modo, assaltando carovane o singoli commercianti alla ricerca di soldi che sarebbero serviti al finanziamento del gruppo, al suo approvvigionamento militare, ma agli adepti sembrava molto poco: in quel modo non sarebbero mai riusciti a sfondare il muro dell’occupazione, a liberare la patria amata.
In più la repressione romana, durissima, aveva colpito la testa del movimento armato, arrestando alcuni dei loro capi – fra i quali Barabba – e un numero considerevole di soldati.
Il rischio di scomparire come formazione politica, destinandoli a diventare una specie di “banda armata” composta di ladri e assassini, dovette sembrare così reale ed urgente a Giuda che lo portò alla decisione di accelerare i tempi.
“Imboccato” dalle influenze mentali di Ya Yevh, che aveva trovato, in quell’uomo, terreno fertile per la propagazione dei suoi propositi, si convinse che mai il Maestro avrebbe assolto al suo compito, e decise così di “dargli una mano”.
Si riavvicinò ai potenti uomini del Sinedrio, che ancora lo ricordavano per i suoi trascorsi tra le loro fila, dando indicazioni a Kaifa – il capo – notoriamente impaurito dal crescente proselitismo che le parole e l’opera di Gesù stavano facendo tra la sua gente, che gli permettessero di fermare Quell’uomo, il suo Maestro.
Solo così – si convinse Giuda – mettendo sotto pressione il gruppo degli apostoli, Gesù in testa, e facendogli intravedere la possibilità di una sconfitta dei loro piani, avrebbe finalmente costretto il Maestro a lasciare da parte la diplomazia, e cominciare finalmente la vera offensiva, la guerra contro l’odiato invasore romano.
Convinto dalle sue stesse conclusioni, offrì la cattura di Gesù agli uomini del potere, sicuro che nel momento che il Maestro si fosse reso conto della catastrofe che il Suo arresto avrebbe provocato nella strategia seguita, avrebbe sfoderato finalmente il Suo potere, facendo scendere dal cielo il Suo esercito celeste, dando finalmente inizio alla “battaglia finale”.
Lo vide invece farSi portare via senza offrire resistenza, persino ammonendo Pietro e un altro apostolo che s’erano frapposti fra Lui e i soldati romani deputati all’arresto. Ma ancora non si convinse, e solamente quando Lo vide riapparire in una maschera di sangue, torturato e deriso dagli odiati aguzzini romani, trasportando la croce cui sarebbe stato appeso sul Golgota, alla stessa stregua di altri suoi due compagni di lotta – altri due zeloti – anch’essi crocefissi su quella collina, solamente allora comprese le parole che il Maestro gli aveva ripetuto incessantemente negli anni, sul regno del Padre e l’amore come strumento per trasformare il mondo.
Il regno dei cieli, secondo Giuda, era un potentissimo centro di controllo, fornito di uomini ed armi dagli effetti micidiali, una invincibile “task force” messa a disposizione da Yaweh per attuare i suoi propositi dominatori sul nostro pianeta.
Gesù, il Messia, era l’essere scelto dallo stesso Dio per attuare il suo piano di dominio.
Suonava strano quindi, agli occhi del nostro uomo, la personalità mite, pacifista, del Messia. I suoi messaggi di perdono e amore sembravano a Giuda solamente interlocutori, nell’attesa di sfoderare tutto il “potere di fuoco” di cui era stato dotato, e che avrebbe riportato Israele ai fasti dei tempi della casa di Davide.
Tutte le volte che aveva la possibilità, Giuda cercava di spronare il suo Maestro a rivelargli i suoi piani, soprattutto quelli concernenti la sfida militare secondo lui in gioco in Palestina. Sapeva che Questi deteneva il controllo di un esercito di “esseri di luce” proveniente da regioni a lui sconosciute, che avrebbe schiacciato il potere degli invasori, ribaltando la situazione allora attuale.
Il confronto con gli altri apostoli, e con il resto delle persone che frequentavano quotidianamente il Maestro – soprattutto con Sua madre Mariah - lo portava sempre allo stesso epilogo, condiviso dall’analisi di questi altri: il momento della “discesa in campo” del suo Rabi, lo sfoderio del potere celeste detenuto, l’annichilamento del nemico e l’apoteosi della vittoria. Il disegno divino di Yaweh si sarebbe presto attuato!
Grande fu quindi la sua delusione nel vedere che il Maestro indugiava, contro ogni aspettativa del popolo, ad indossare i panni del “conquistador”, assumendo il ruolo politico a cui Lui solo aveva accesso, guidando la rivolta ebrea.
Cercò di spronarlo in tutti i modi, a volte con fin troppa insistenza, ottenendo però sempre la stessa risposta: nella casa del Padre ci sono molte dimore, e il Suo regno non era di questo mondo.
Niente guerra di liberazione quindi, né organizzazione di milizie utili a fiancheggiare l’esercito celeste, né ruoli politici da svolgere in preparazione dei grandi eventi futuri.
All’interno del suo gruppo – gli zeloti – la pressione era grande. Le azioni di lotta armata proseguivano allo stesso modo, assaltando carovane o singoli commercianti alla ricerca di soldi che sarebbero serviti al finanziamento del gruppo, al suo approvvigionamento militare, ma agli adepti sembrava molto poco: in quel modo non sarebbero mai riusciti a sfondare il muro dell’occupazione, a liberare la patria amata.
In più la repressione romana, durissima, aveva colpito la testa del movimento armato, arrestando alcuni dei loro capi – fra i quali Barabba – e un numero considerevole di soldati.
Il rischio di scomparire come formazione politica, destinandoli a diventare una specie di “banda armata” composta di ladri e assassini, dovette sembrare così reale ed urgente a Giuda che lo portò alla decisione di accelerare i tempi.
“Imboccato” dalle influenze mentali di Ya Yevh, che aveva trovato, in quell’uomo, terreno fertile per la propagazione dei suoi propositi, si convinse che mai il Maestro avrebbe assolto al suo compito, e decise così di “dargli una mano”.
Si riavvicinò ai potenti uomini del Sinedrio, che ancora lo ricordavano per i suoi trascorsi tra le loro fila, dando indicazioni a Kaifa – il capo – notoriamente impaurito dal crescente proselitismo che le parole e l’opera di Gesù stavano facendo tra la sua gente, che gli permettessero di fermare Quell’uomo, il suo Maestro.
Solo così – si convinse Giuda – mettendo sotto pressione il gruppo degli apostoli, Gesù in testa, e facendogli intravedere la possibilità di una sconfitta dei loro piani, avrebbe finalmente costretto il Maestro a lasciare da parte la diplomazia, e cominciare finalmente la vera offensiva, la guerra contro l’odiato invasore romano.
Convinto dalle sue stesse conclusioni, offrì la cattura di Gesù agli uomini del potere, sicuro che nel momento che il Maestro si fosse reso conto della catastrofe che il Suo arresto avrebbe provocato nella strategia seguita, avrebbe sfoderato finalmente il Suo potere, facendo scendere dal cielo il Suo esercito celeste, dando finalmente inizio alla “battaglia finale”.
Lo vide invece farSi portare via senza offrire resistenza, persino ammonendo Pietro e un altro apostolo che s’erano frapposti fra Lui e i soldati romani deputati all’arresto. Ma ancora non si convinse, e solamente quando Lo vide riapparire in una maschera di sangue, torturato e deriso dagli odiati aguzzini romani, trasportando la croce cui sarebbe stato appeso sul Golgota, alla stessa stregua di altri suoi due compagni di lotta – altri due zeloti – anch’essi crocefissi su quella collina, solamente allora comprese le parole che il Maestro gli aveva ripetuto incessantemente negli anni, sul regno del Padre e l’amore come strumento per trasformare il mondo.
Era ormai troppo tardi, però, e troppo oneroso era il carico emozionale che le sue scelte affrettate ed erronee avevano creato. Sotterrato dalla comprensione della responsabilità che s’era assunto non resistette, ponendo fine con un ultimo gesto inconsulto alla sua vita, andandosene senza aver capito la funzione che gli era stata affidata, quella di essere il fautore della rappresentazione dell’ultimo capitolo della “performance” del Maestro sulla Terra, così come doveva essere.
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