Non so cosa sia ad irritarmi di più: il ticchettio furioso delle gocce di pioggia che cadono sul tetto di lamiera, o il pensiero martellante delle tante cose da fare, prima di considerarmi soddisfatto, e pronto ad abbandonare il gioco.
Forse il fatto che il “gioco” non sia tale, ma una lotta titanica fra il mio ego incrostato di stupidaggini e i migliori ideali di ricercatore dello spirito - o meglio della via della spiritualità che si possa tradurre in un codice di comportamento - sembra condurmi sempre aldilà della “realtà” di tutti i giorni, dove le cose, unendosi, si confondono.
Forse non è così, anzi credo non lo sia proprio, ma questo è il pensiero in cui mi racchiudo quando mi rendo conto dell’ennesimo errore commesso, della parola di troppo, del gesto evitabile, del silenzio, complice o omesso.
Elucubrazioni mentali, senza dubbio, ma di quelle che forse un giorno – e enfatizzo forse – si tradurranno in risultati migliori, più obbiettivi in relazione al fine preteso.
Almeno così spero.
Ma la pioggia, là fuori, non cessa, e questo rifugio che mi sono scelto per ripararmi – un granaio ormai dismesso da tempo – è protezione, ma anche condanna. Sono così costretto a subire il martellare dell’acqua che occupa il silenzio della campagna, e a zittire la mia mente, facendo solo rimbombare il fruscio dei miei pensieri, che volano senza meta.
del silenzio, complice....
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