mercoledì 18 gennaio 2012

Derby notturno

In un campo di calcio sta per iniziare una partita notturna. Io sono il capitano della mia squadra, e mi trovo in una difficile situazione.
Non conosco l’allenatore, non l’ho mai incontrato. So che esiste – leggo delle sue prodezze in tanti libri e giornali, in tutto il mondo – che è famoso, e che vive da qualche parte ignota a tutti.  
Si relaziona con me attraverso un sistema abbastanza complicato, utilizzando alcuni portavoce che comunicano ad altri – di cui ne conosco solo alcuni – gli schemi tattici della partita in atto. Questi ultimi, a loro volta, cercano di ripassarmeli, anche se non sempre come dovrebbe essere, visto che molti fra loro di calcio non ci capiscono un’acca, e poi - si sa - tra un passaggio e l’altro le parole possono anche essere travisate, o mal interpretate. Morale, quasi mai ricevo delle indicazioni precise e praticabili sul gioco che dovrò sviluppare in campo.
La mia squadra è anch’essa sconosciuta: non so né da quanti giocatori sia composta, né chi questi siano.
Quando entro in campo, e la partita comincia, si spengono i riflettori, tutto precipita nel buio e non si vede più niente: né le dimensioni dello stadio, né dove sia la porta avversaria, né tanto meno i giocatori contendenti, di cui non conosco numero né identità. 
Con i miei compagni di squadra non va molto meglio: immerso in una oscurità totale, a malapena riconosco solo i due, a volte tre che mi stanno sempre vicini, ma gli altri non riesco nemmeno a vederli, a meno che si lascino avvicinare, o si avvicinino loro, e io possa identificarli.
In campo non ci sono né l’arbitro né i guardialinee: nessuno quindi controlla il rispetto delle regole del gioco, valendo tutto, e il contrario di tutto.
Sporadicamente, però, uno squarcio di luce lunare mi permette di intravedere in lontananza la porta avversaria, poi cala di nuovo l’oscurità. Cercando di memorizzarne la posizione mi sposto, palla al piede, accompagnato dai miei due/tre compagni. 
Nel buio totale ogni tanto appare qualcuno, che mi sembra abbia i nostri colori, e gli passo la palla. Poi invece, all’approssimarsi, mi rendo conto che è della squadra rivale, e devo lottare con lui, per riportargliela via.
A volte tiro il pallone in direzione a quella che credo sia la posizione della porta, ma non so mai se ho fatto gol, o se è fuori, di quanto e come: non c’è il pubblico con i suoi brusii e boati, né lo schermo gigante e nemmeno un misero altoparlante che annunci il risultato.
Così gioco in un perenne zero a zero, senza mai poter gioire, o riposarmi. Corro come un matto, anche perché i miei due/tre amici fidati, a volte, sbagliano direzione, e si mettono a correre verso la nostra porta, che non ha un portiere – almeno io non l’ho mai visto.
In queste ambigue condizioni – direte voi – ma chi me lo fa fare di stare in campo? 
È quello che mi chiedo anch’io. 
Forse sono un utopista, che crede di poter fare tutto da solo e vincere, o forse solo uno stupido, che perde un sacco di tempo ad occuparsi di inutilità.
La conseguenza logica – in un caso o nell’altro – sarebbe quella di mollare questa partita, e tornarsene a casa, dai propri cari. È vero, e non nego che a volte lo vorrei proprio fare, ma c’è un ma.
Se non vado in campo, e non cerco di vincere la partita, l’allenatore mi punisce con una multa, non mi paga lo stipendio, e se insisto nel non giocare manda pure i suoi uomini a causarmi danni, psicologici e materiali. Sono messo piuttosto male, no?
Beh, questa è - metaforicamente parlando - la mia vita con Javeh, i suoi angeli, gli intermediari, i miei compagni di squadra, gli avversari. Un sacco di gente, apparentemente, ma io so che, in realtà, ora posso fidarmi solo di uno o due, quelli che mi stanno sempre al fianco.
Siccome  però – oltre che un idealista, un utopista o forse uno stupido  – sono anche una testa dura, ho deciso che questa partita, da oggi in avanti, me la gioco come voglio io, scegliendomi sia i compagni sia la tattica di squadra. 
Non voglio più saperne del mister e dei suoi assistenti, le loro indicazioni a volte mi fanno solo perdere del gran tempo, anche se – sono convinto – apprezzeranno la mia nuova visione di gioco.
Alla fine si tratta di un derby, e quel che conta è vincere, secondo le regole del gioco. 
Mi spiace per quei compagni che sono in campo e che non vedo, ed anche per gli avversari che fanno di tutto – compreso scambiarsi le maglie – per impedirmi di fare gol, ma io sono un  centravanti, e mi acquieterò solo quando vedrò la palla in rete.



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