sabato 5 marzo 2011

Gheddafi, l'ONU e Ruby Rubacuori

Mi sono laureato alla Statale di Milano quando il rettore della mia facoltà – Giurisprudenza – era Antonio Padoa Schioppa, fratello maggiore del Ministro del tesoro nel governo Prodi.
Uno degli esami che ho dovuto sostenere – Economia, appunto – l’avevo preparato su un testo di Richard G. Lipsey che costantemente ribadiva un concetto chiave: tutto il contesto economico si può ridurre a due filoni principali antagonisti fra loro, burro e cannoni.
La teoria lì espressa affermava che sono l’industria alimentare e quella degli armamenti che si contendono la maggior parte delle risorse economico-finanziarie del pianeta. Alternandosi nell’importanza, avvincendandosi, a volte agendo in complemento l’una all’altra, queste due macro-forze determinano assolutamente l’andamento di tutte le altre che le sono minori.
La fotografia era reale, anche se non esatta: le quantità di investimenti e ricerche che vanno nelle due direzioni non sono paritetiche, anche perché mentre quelle destinate alle politiche alimentari sono sommariamente “in chiaro”, quasi tutte quelle che si dirigono allo sviluppo degli arsenali militari sono assolutamente, o in gran maggioranza, coperte dal segreto.
Come qualsiasi altra persona mediamente intelligente capisco che una suddivisione binaria così evidente non può che portare ad una conseguenza: quella dell’incentivo a consumare di più, armi o cibo che sia.
Corollario dipendente da questa situazione è che una serie di altre attività, complementari o accessorie a quelle prime due – dalla politica alla pubblicità televisiva – spingeranno in una o altra direzione, a seconda delle esigenze.
Risultato di tutto ciò è che, senza saperlo, produciamo ricchezza, paghiamo tasse ed imposte, ci schieriamo politicamente da una parte o dall’altra, assecondando – senza volere, senza capire - il successo merceologico ora del “burro”, ora dei “cannoni”.
Partendo da questa visione macro-economica del mondo ( e non accusatemi di essere un vetero-comunista solo perché è stato Karl Marx a dire per primo che la struttura base di ogni realtà sociale è quella economica, e tutte le altre le sono dipendenti – oggi l’affermano tutti ) diventa facile capire che cosa succederà nei prossimi giorni/settimane/mesi per “risolvere” la questione libica.
Il quadro è abbastanza semplice: abbiamo un beduino che s’è auto-intitolato colonnello e che 42 anni fa ha saputo agglutinare un grande scontento popolare, orientandolo con successo per fornirgli appoggio sufficiente a scalzare la dinastia reale che governava il Paese, ed assumere il controllo dello stesso.
Oggi lo stesso popolo – non tutto, ma una buonissima parte – gli si sta rivoltando contro, mettendo a rischio le proprie vite per garantire un futuro di libertà e dignità a loro stessi e ai loro figli.
Gheddafi da parte sua ha subito l’affronto, e ha risposto come meglio sa fare, con la prepotenza e la violenza.
Il risultato è quello che vediamo nei giornali e nelle televisioni.
 Le conseguenze sono quelle che in molti immaginano: tragiche, da qualunque tipo di prospettiva le si guardi.
Esiste la possibilità di fermare quest’uomo? Non fino a quando avrà terminato il “servizio”.
Conscia di questa situazione, la comunità internazionale viene chiamata – in ultima istanza – a sfoderare la soluzione che permetterà la fine della mattanza, e soprattutto le gravi oscillazioni di mercato che questa incertezza politica genera.
L’ONU – organismo maggiormente autorevole, dal punto di vista della comunità internazionale – dovrà fare delle proposte, che verranno discusse al suo interno fino all’approvazione di un qualche documento finale, che verrà quindi sottoposto all’approvazione dell’assemblea, sempre che non ci siano veti da parte di quegli Stati – America, Russia, Cina, Francia e Inghilterra – che ne hanno diritto.
Se consideriamo l’affermazione iniziale che vede l’economia globale divisa fra “burro e cannoni”, ed anche tenendo presente che i cinque Stati citati sono i maggiori investitori, produttori ed esportatori di armamenti, ne deduciamo con semplice logicità che poco avremo nello sperare in qualche “miracolo” che faccia terminare subito questa tragedia umanitaria che si svolge a quattro bracciate da casa nostra.
Lasciare che si sparino fra loro, consumando armi e munizioni e dovendosi quindi rifornire ancora, sarebbe l’unico saggio “consiglio” che un direttore commerciale di questa fabbrica di armamenti mondiali potrebbe dare a chiunque facesse parte del suo entourage.  Pretendere che lo stesso attivi i suoi uomini, nelle competenze specifiche che gli appartengono, affinché questi trovino la maniera di far smettere subito il conflitto, sarebbe un non-sense che lo condurrebbe immediatamente alle porte dell’impresa.
L’abbiamo già visto in molte altre occasioni: in Iraq, nell’ex Iugoslavia, nell’Africa centrale, nei tanti piccoli conflitti locali che si spargono per il mondo.
Quando quasi tutti si saranno ammazzati, e non ci sarà più possibilità di fare buoni affari con la vendita delle armi, ai sopravvissuti si venderà la “ricostruzione”, e all’altra grande forza macro-economica, quella che fa capo al “burro”, verrà finalmente dato spazio per vendere la propria merce, e guadagnarsi i sudati soldini a cui ha diritto.
E’ un avvicendamento “democratico”, dove nessuna o molta poca importanza hanno parole come dignità, libertà, solidarietà. Anche perché, con queste, di soldi non se ne fanno – anzi se ne spendono e basta - e a chi governa la “stabilità” economico/politica del pianeta ciò piace poco, pochissimo.
Assisteremo allora – scusatemi se vi racconto già la fine del “film” mentre lo stanno proiettando – ad una successione di protocolli d’intenzione, di inviti, di minacce di sanzioni, di sanzioni vere e proprie, di “ultimatum” fino a che una delle due parti (quella che ha da spendere di meno), presto o tardi, abbandonerà il ring.
Si procederà quindi a “ricostruire”, e a riporre lo stock logistico-bellico consumato, con grande beneficio delle corporazioni dei “burri” e delle “armi” ( che per inciso poi è sommariamente una, che vende ora una cosa, ora l’altra).
Cinico? Pessimista? Catastrofista?  Ma non fatemi ridere! Solo un cieco, con due grosse fette di prosciutto ben stagionato sugli occhi, non arriverebbe alle stesse conclusioni guardando la storia e l’attualità.
E se ancora chi ha dubbi sul fatto che il mondo – la somma della cultura e delle tradizioni morali e intellettuali dei popoli – stia immettendosi in un vicolo senza uscita, dove “altri” determinano quello di cui “dobbiamo” parlare, e quello di cui ci  “dobbiamo “ preoccupare, guardi all’Italia, culla della latinità e del mondo “occidentale”, modello di democrazia e cultura, e si renda conto di quello che le sta succedendo:
perché al ballo delle debuttanti di Vienna – ambito traguardo cultural - sociale della “creme” europea, e non solo – a rappresentare il nostro Paese, dopo la Loren e la Lollobrigida degli anni passati, c’è rimasta solo – purtroppo – Ruby Rubacuori (sic!).
Auguri.


giovedì 3 marzo 2011

Conversazioni con Rogerio - Macchu Picchu 2

“Molto bene, Roberto. Giacché hai capito, perché non ricominciamo da dove ci eravamo lasciati, su quel magnifico vulcano? E visto che siamo qui, perché non parlare dei popoli straordinari che hanno vissuto fra questi altopiani, gli Incas, e magari anche dei loro cugini centroamericani Toltechi, Maya e Aztechi, che tanto avevano in comune con gli Incas?»
«Chiaro» dissi «sono tutto orecchi. Hai già visto come mi lasci inebetito con le tue storie, no? E allora puoi cominciare, ti ascolto!»
E cominciò.
«L’essere umano normalmente percepisce solo quello che gli salta agli occhi. Così, quando guardiamo il mare, rivolgiamo la nostra attenzione alle onde, dimenticandoci della grande
profondità che le sostiene.
I Maya, gli Incas e gli Aztechi formano solo le onde di un oceano più profondo, poiché  queste tre civiltà sono figlie di una cultura madre, la tolteca, che nella mia metafora è
quell’oceano profondo di cui ti ho parlato. Gli Incas, per esempio, non sono mai riusciti a spiegarsi le radici dell’eredità tolteca che avevano ricevuto dai loro antenati, anche perché non erano i veri ereditieri, bensì lo erano quei tre popoli da cui avevano avuto origine cioè i Mochicas, i Wari e i Tihauanacos.
Allo stesso modo in cui, non sapendo chiaramente spiegare chi avesse costruito la vera capitale della loro civiltà (Tihauanaco, in Bolivia), tramandavano la storia - o leggenda, se la vogliamo chiamare così - che i costruttori fossero Dei, essi non riuscivano ad avere la minima idea da dove arrivassero le tradizioni culturali e scientifiche che gli appartenevano per eredità ricevuta, a loro dire, da generici antenati. E questo, vedi bene, non era esclusività degli Incas. Anche i Maya e gli Aztechi avevano lo stesso problema, e non sapevano localizzare le origini delle loro ricchissime tradizioni».
«Mi ha detto un vecchio indio, che vende frutta al mercato di Cuzco, che il costruttore di Tihauanaco fu un tale di nome Viracocha. Ne sai qualcosa?» chiesi.
«È quello che dicono le tradizioni dei popoli precolombiani» aggiunse.
«Sì, ma chi era Viracocha?».
«Raccontano le tradizioni che gli antenati degli Incas ebbero il privilegio, subito dopo il grande diluvio che trasformò la regione con l’esondazione del lago Titicaca, di conoscere questo leggendario personaggio che apparve all’improvviso, sbucando dalle acque di quel lago, riorganizzando quella civiltà distrutta con i pochi sopravvissuti.
Lo descrivevano come un uomo alto, con una lunga tunica bianca, un’imponente barba, insomma l’immagine di un uomo apparentemente di razza caucasica. Dicono queste tradizioni che era un uomo dall’indole speciale, che dimostrava di sapere e interpretare le leggi divine di cui era portatore, con un’enorme conoscenza nel campo dell’arte, della cultura e delle scienze, estremamente pacifico e misericordioso con tutte le persone che incontrava nei suoi vai e vieni per la regione andina».
«Aspetta, hai parlato di un diluvio, è lo stesso di cui parla la Bibbia, quello di Noè?»
«Già. Stiamo trattando di un evento che ha coinvolto tutto il pianeta alcune migliaia di anni fa, o comunque di una serie di eventi localizzati e che sono stati tramandati da molti popoli appartenenti a differenti regioni della Terra, apparentemente nello stesso identico periodo, e riportando esattamente lo stesso evento: un diluvio, una previa raccomandazione a un uomo affinché con la sua donna raccogliesse esemplari di piante e animali con cui avrebbe dovuto ricostituire la flora e la fauna, dopo che le acque si fossero ritirate. Anche gli Incas, i Maya e gli Aztechi fecero la loro parte, così come i popoli dell’India, dell’Europa antica e dell’Asia Minore, in particolar modo quelli della Mesopotamia, che descrissero dettagliatamente tutte le tappe legate a quel fatto in tavolette di argilla, recentemente trovate e che oggi sono a disposizione per la consultazione storica.
Ovviamente anche il nostro Noè biblico sta nel mezzo di tutta questa confusione».
«Allora» dissi «Viracocha è la versione andina di Noè, o è un Dio? Oppure un inviato di Dio che era venuto a salvare il mondo? ».
«Tu e la tua mania cattolica della salvezza! Non c’entra niente!» sentenziò quasi seccato.
«Qualunque Dio minimamente intelligente non sarebbe stato così irresponsabile da contraddire le leggi che Lui stesso aveva emanato in ordine alla questione delle cause e dei loro effetti. Chi deve salvarsi è lo stesso essere che si è ficcato nei guai, che ha creato con le proprie azioni il suo inferno particolare. Questi deve rendersi conto dei suoi errori e “salvarsi” da solo.
Quello che noi chiamiamo Dio pretendeva e pretende solo di aiutarci affinché noi stessi, i terracquei, si possa costruire, attraverso i nostri propri sforzi e meriti, il cammino della redenzione delle coscienze in relazione alle leggi della vita cosmica.
Viracocha, che in Messico conoscono come Quetzalcoatl, fu solo un essere inviato dall’Alto per aiutare il genere umano in quest’opera di ricostruzione».
«Allora Viracocha e questo Quetzal... insomma erano la stessa persona?»
«Sì, solo che il suo personaggio è stato riprodotto con nomi differenti. Viracocha in Perù e Bolivia, Quetzalcoatl in Messico. In realtà poi era un extraterrestre con una missione da compiere, e che ha compiuto».
«Ancora con ‘sta storia degli extraterrestri! E da quanto tempo ‘sta gente ci sta accompagnando?».
Lui tirò un profondo sospiro prima di rispondere…



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