giovedì 2 dicembre 2010

Il suicidio di Mario Monicelli

Vorrei prendere spunto da un fatto di cronaca appena successo, la scomparsa del grande maestro Mario Monicelli, per fare alcune considerazioni sul suicidio come atto del libero arbitrio umano.
Premetto che non vorrei che si travisassero le mie parole, nel senso generale di un’assoluta contrarietà alle penose vicende umane che portano taluni, magari in tremende e terminali situazioni di salute, a interrompere le proprie esistenze, ma solamente che fossero accettate per quelle che sono, uno stimolo al pensiero.
Per capire la valenza del suicidio dobbiamo fare un lungo salto indietro, quando ancora eravamo in stato spirituale, prossimi all’imminente reincarnazione.
In quell’opportunità ognuno di noi, espresso il desiderio di riprendere il ciclo delle esistenze fisiche, ha riunito attorno a sé il grande gruppo di spiriti che gli sono compagni, amici o nemici, e sotto la supervisione del mentore spirituale di quel gruppo ha dichiarato quali i suoi propositi evolutivi che intende raggiungere durante la prossima vita fisico/materiale.
In relazione alle cose che avrà da fare, agli incontri e scontri che dovrà sostenere, al cammino che dovrà percorrere, insomma, gli verrà assegnato un “tempo di vita”, necessario e sufficiente a far tutto ciò che deve, un tipo di”serbatoio” di esistenza da utilizzare perché tutte le cose che dobbiamo/vogliamo fare possano compiersi.
Chiaramente – ed è qui che vorrei evitare la “polemica” cui mi riferivo idealmente prima – anche le malattie contano, anzi forse proprio le malattie, per l’obbligatorietà dell’introspezione che portano necessariamente con sé come conseguenza dello smarrimento in cui la persona prossima a “morire” si sente, sono una delle fasi più importanti dell’esperienza fisica dello spirito.
Quando l’essere umano, per i motivi più diversi, decide di interrompere la sua vita, lo fa lasciando sempre un residuo di “esistenza” nel suo “serbatoio”, e questo residuo non può essere semplicemente cancellato, ma deve consumarsi piano pano, naturalmente, secondo il tempo terrestre, fino a esaurirsi completamente.
Solo allora lo spirito può portarsi nell’ambiente spirituale vero e proprio.
Ma cosa significa ciò, in pratica?
Quando una persona “muore” naturalmente, non appena avviene il distacco del cordone d’argento che unisce il corpo spirituale a quello fisico, il primo di questi due corpi viene trasportato negli ambienti spirituali che gli sono consoni per il ristabilimento dell’equilibrio energetico perso durante la fase incarnatoria, una specie di “ospedale dell’anima”, detto in soldoni.
Il suo corpo fisico – quello morto per davvero – rimane sulla Terra, cominciando il suo processo naturale di decomposizione, e di tutto ciò, là “sopra”, lo spirito non s’interessa un granché, già che in pace con se stesso.
Quando una persona invece “si uccide” – meglio sarebbe dire quando uno spirito decide di uccidere il proprio corpo – quello che succede è che la sua essenza personale non riesce a “volare” dove dovrebbe, ma si costringe a rimanere accanto al suo corpo fisico per il tempo necessario all’esaurimento della carica vitale del “serbatoio energetico”.
E’ allora costretto a vedere il corpo che l’ha accompagnato durante l’esistenza fisica consumarsi nella decomposizione, anzi, non solo lo vede, ma lo “sente” ancora come suo, con indicibili sofferenze.
Il tempo di durata di questa sofferenza è relativo – nel caso di Monicelli, con 95 anni, probabilmente corto, mentre estremamente più lungo nel caso il suicida sia ben più giovane del maestro – ma l’effetto sullo spirito del suicida è lo stesso: una estrema disperazione non confortata da nessuno, se non dopo che l’energia vitale si sarà esaurita e il “soccorso celeste” potrà intervenire trasportando l’anima infelice verso ambienti dove comincerà a ricomporsi.
Lo spirito del suicida rimane dunque ben vivo, legato alla crosta terrestre, al suo corpo in decomposizione, rivivendo in continuazione il gesto con cui s’è tolto la vita, obbligato a sentire le parole e i pensieri di quelli che conosceva e che sono rimasti vivi, a vederli spartirsi le cose che lui ha guadagnato, a litigare fra loro.
Cercherà allora di intervenire – perché si sente ancora “vivo” – ma senza alcun esito perché, invisibile da tutti, nessuno percepirà la sua presenza.
In compenso dovrà sopportare la compagnia di altri esseri ugualmente o peggiormente disperati che come lui vagano in questa zona “astrale”, o perché “colleghi”, cioè altri suicidi, o perché semplicemente troppo attaccati alle cose della vita, ai beni, agli affetti, al potere, e per queste recalcitranti – loro, a differenza dei suicidi, potrebbero farsi “ricoverare” se volessero – all’idea del ritorno negli ambienti spirituali che gli sono vibratoriamente consoni.
Questo è quello che sappiamo da migliaia di comunicazioni che abbiamo con il mondo spirituale, tutti concordi nell’esprimere un netto giudizio negativo in relazione agli effetti che ha sull’anima quel tipo di scelta, e quindi a sconsigliarlo a chiunque.
Che ognuno tragga le proprie conclusioni.
Io prego per il maestro Monicelli, che presto raggiunga la pace.



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